L’attesissima sfilata di Gucci by Demna Gvasalia si è trasformata in una clamorosa delusione: non c’è stata alcuna passerella, bensì una capsule collection relegata a uno short cinematografico interpretato da celebrità. Una mossa che ha lasciato molti, me compreso, con l’amaro in bocca. L’aspettativa era quella di vedere il nuovo Gucci, di coglierne la visione, non di assistere a un’operazione di marketing estetizzato che su Instagram aveva già mostrato i suoi limiti.
Il paradosso è evidente: si investono cifre esorbitanti per attori di fama internazionale, costi che finiranno inevitabilmente sulle spalle dei consumatori del see now, buy now, mentre il marchio ne esce con un’immagine sfocata, priva di identità, incapace di definire con chiarezza né il proprio pubblico né la propria traiettoria commerciale.
Un direttore creativo, soprattutto se ingaggiato a peso d’oro, non può limitarsi a giocare con loghi e storytelling cinematografici. Deve interpretare il DNA della maison, proiettarlo nel presente con una dose calibrata di innovazione, preservando al contempo l’aura di prestigio che ha reso celebre il brand. È ciò che ho visto con Simone Bellotti per Jil Sander, scolpendo la silhouette, ma restando fedele al minimalismo, o Lorenzo Serafini per Alberta Ferretti, capace di ringiovanire i codici stilistici senza mai tradire il suo target.
Gucci, al contrario, sembra oggi prigioniero di un esercizio di stile privo di sostanza, in bilico tra cinema e moda, senza riuscire a raccontare né l’uno né l’altra.
