Non si può negare la capacità strategica dei francesi nel mondo della moda, comprano ogni cosa nostra quando a noi interessa vendere, hanno brand che non perdono fatturato, tra cui Chanel che si rifiuta di vendere online o Louis Vuitton che non fa saldi presso i suoi negozi e non permette di comprare più di una borsa per cliente, mentre noi abbiamo alcuni famosi brand con una stabilità di mercato oscillante. I francesi inoltre sono più lungimiranti di noi perché si sono diretti per primi verso i mercati emergenti quali Africa, India, Messico e non mi meraviglierei se in seguito si proporranno in Argentina e Brasile.
Ma la cosa che più mi colpisce dei francesi è la loro unione anche di differente età, la loro forza di agire compatti per uno scopo con atteggiamento dogmatico, a differenza di noi opportunisti abituati per tradizione a guardare la cosa che più ci torna comodo.
Gli attivisti francesi si sono rivolti al governo per fermare Shein e il suo modello di vendita estremamente veloce ed economico che ha fatto dell’azienda un simbolo degli effetti negativi del fast fashion per l’enorme impatto ambientale derivante dalla produzione e commercializzazione giornaliera di migliaia di nuovi abiti e lo sfruttamento lavorativo nella catena di approvvigionamento dell’azienda, inclusi i legami con il lavoro coatto degli Uiguri. La campagna è stata lanciata mercoledì 7 giugno da Place Publique, partito politico francese di centro-sinistra che annovera tra i suoi fondatori il parlamentare europeo Raphaël Glucksmann, noto per le sue battaglie contro il lavoro forzato in Cina.
«L’iperconsumo esaltato da Shein è un’arma di distruzione climatica di massa». La petizione “Stop Shein” ha raccolto in 48 0re 11.000 firme chiedendo al ministro dell’Economia, Bruno le Maire, di regolamentare le pratiche di marketing che incentivano il consumo eccessivo e di bloccare i siti web o i marchi che introducano sul mercato più di 1000 modelli al giorno.
Forse bisognerebbe ammettere che abbiamo ancora qualcosa da imparare dai francesi.
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