La sfilata più attesa era il passaggio del testimone da Riccardo Tisci a Daniel Lee in Burberry. La rivisitazione del brand non ha deluso chi si aspettava un cambiamento nello stile nella famosa Maison inglese fondata nel 1856 con un’inedita riedizione dell’heritage tra presente e passato. I punti chiave sono la riedizione del simbolo del cavaliere equestre, le stampe di rose che si rifanno a Enrico Tudor, le stampe di anatre ad indicare i temporali inglesi (lovely weather for ducs), il trench e l’iconico check disposto a strati sugli indumenti. Questi elementi del country inglese si incontrano con le suggestioni dalle subculture londinesi odierne con una punta di punk. Gli accessori, di cui è stato maestro in Bottega Veneta, prendono spunto dall’humor inglese, la pochette si trasforma in una borsa di acqua calda, il copricapo della guardia reale diventa una borsa, le galosce sono over e stringate furry, i sandali piumati, i colbacchi e lo hobo con code di pelliccia sintetica.
Daniel Lee si rivolge a quel target cliente che non ama essere sexy, non piace esibire il lusso, ma neanche ha bisogno di urlare la sua disapprovazione a ciò che lo circonda; il suo pensiero è essere ciò che vuole essere e non quello che vorrebbero gli altri fosse. Questa innocua forma di indipendenza è, secondo me, l’aspetto più odierno della nuova generazione perché esprime appieno la libertà da qualsiasi vincolo.